Ascolto tanti racconti su Berlino. Capitale europea, cultura, relax, divertimento, arte, giovani stravaganti. “Ti piacerebbe un sacco”, mi dice chi c’è stato, “ci devi assolutamente andare”. E al paese dove sono nato sentivo sempre commentare con l’emigrato in Germania di turno: “lì sì che si sta bene, non qui”. Tutto bello, tutto preciso lì, tutto in ordine. Le cose addirittura funzionano.
Si soffre di esterofilia qui a Sud. Siamo provincia dell’impero e la capitale ci pare lastricata d’oro. Un fondo di verità però ci sarà. Certo è che, se lì si vive rilassati, qui le tensioni non mancano. Tutto è duro, complicato, irto d’ostacoli. Pietra nella terra arida. Ci sarà forse un nesso tra queste percezioni del mondo agli antipodi? Nel caso, qual è il prezzo di questa presunta rilassatezza della vita e dei costumi dei berlinesi? E chi lo sta pagando?
Leggendo “L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa“ di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella (2012), mi sono imbattuto in questa frase:
“«mezzogiornificazione» delle periferie europee: il termine è stato coniato da Paul Krugman, in uno scritto anticipatore del 1991. Con questa espressione, l’economista americano intendeva richiamare l’attenzione sul nesso esistente tra unificazione economica e monetaria e processi di concentrazione territoriale della produzione.”
Spiegano gli autori:
“la sua tesi consisteva nell’idea che, una volta costituita la moneta unica, l’Europa sarebbe stata attraversata da intensi processi di concentrazione territoriale della produzione e dell’occupazione. La morfologia del tessuto produttivo europeo avrebbe finito così per somigliare sempre di più a quella degli Stati Uniti. Tuttavia, questa convergenza non sarebbe avvenuta senza sacrifici: le aree periferiche del continente sarebbero state colpite da fenomeni di desertificazione produttiva e migrazione di lavoratori verso l’estero. Da qui, dunque, scaturisce il concetto di «mezzogiornificazione», vale a dire l’idea che il sottosviluppo del Meridione rispetto al resto dell’Italia da caso particolare si sarebbe tramutato in caso paradigmatico per il complesso dei rapporti tra i paesi periferici d’Europa e il resto del continente.”
Le statistiche sulle sorti sventurate del Sud acquistano così un nuovo significato. Invece di convergere verso qualità e standard europei, di diventare come i tranquilli paesi nordici che tanto ammiriamo, il Sud e le altre zone periferiche d’Europa declinano inesorabilmente. C’è un nesso con le attuali politiche continentali. E’ la tesi degli autori, che affermano:
”il depauperamento dell’Europa del Sud e delle altre aree marginali dell’Unione non rappresenta necessariamente un processo inesorabile, ma può essere visto come una delle conseguenze della politica di austerità.”
“Le divergenze in corso sono infatti polimorfe, multidimensionali, e crescono nel tempo a causa della preponderanza di forze che caratterizza soprattutto l’economia tedesca rispetto alle realtà periferiche dell’Unione. Grazie a un grado di centralizzazione e organizzazione dei capitali nettamente superiore al resto d’Europa, e a una politica neomercantilista, basata sul contenimento della domanda interna e dei salari in rapporto alla produttività, la macchina produttiva tedesca si caratterizza per una straordinaria capacità di penetrare i mercati dei paesi periferici dell’eurozona e di individuarvi un’importante, ulteriore fonte di domanda per il proprio sviluppo. L’andamento delle bilance dei pagamenti verso l’estero è in questo senso particolarmente indicativo. Mettendo a confronto i conti esteri della Germania da un lato e dei quattro paesi dell’Europa del Sud dall’altro, si rileva una tendenza all’ampliamento dei surplus dell’una e dei deficit degli altri proprio a partire dagli anni in cui l’Unione monetaria è andata formandosi.”
Alle origini della crisi, lo sappiamo tutti, lo spreco. Il passato e la morale avvalorano la virtù del risparmio. Quante volte ho sentito di persone, in campagna, che in tempi non sospetti riciclavano tutto. Dai fogli di giornale riusati come carta igienica alle bottiglie di vetro. Non si buttava niente. Certo un po’ si esagerava: negli anni ’70 mia nonna, per non accendere la stufa, d’inverno in casa indossava cappotto e guanti. Negli anni ’80 mi sono imbattuto in cortili di case di campagna ricolmi di carcasse di auto, frigoriferi e lavatrici. Si sa, in quegli anni spendere e spandere è diventato lo sport preferito dalla generazione dei nostri padri, che ha scaricato su quelle successive una montagna di debiti.
“Prendiamo ad esempio l’idea secondo cui noi tutti, in questi anni, avremmo vissuto «al di sopra dei nostri mezzi» caricando un insostenibile «debito sulle giovani generazioni». Questa litania circola da mesi indisturbata sui media. Ma in che senso noi tutti avremmo vissuto al di sopra dei mezzi, visto che l’economia nel suo complesso è afflitta da un sistematico sottoutilizzo del lavoro, degli strumenti di produzione e delle forze produttive esistenti? E ancora, come può l’economia nazionale ripagare i suoi debiti attraverso l’austerità, se questa a sua volta implica un ulteriore, mancato utilizzo delle forze produttive e un ulteriore calo dei redditi? Infine, perché mai le cosiddette «giovani generazioni» sarebbero salvaguardate dalla politica di austerità, visto che questa contribuisce al dilagare della disoccupazione soprattutto tra di loro?”
Ma cosa è successo allora negli anni bui dello spread alle stelle, quando non si parlava d’altro? In quei mesi sembrava che questa misura della differenza tra il costo dei titoli del debito pubblico tedeschi e del paese preso in considerazione, fossero tutto quanto una comunità dovesse sapere.
“L’opinione prevalente in ambito politico è che la crisi avrebbe palesato una verità tenuta troppo a lungo nascosta: l’ampliamento degli spread iniziato nel 2010 si spiegherebbe col fatto che alcuni paesi dell’Unione registrano una spesa pubblica sistematicamente più alta delle entrate fiscali, e quindi livelli eccessivi del deficit pubblico annuale o dell’ammontare di debito pubblico accumulato nel corso degli anni. Stando a questa visione, deficit e debiti pubblici troppo alti rispetto ai redditi nazionali sollevano dubbi sulla sostenibilità della posizione finanziaria di alcuni Stati europei, e diffondono nei mercati il timore di un loro fallimento.”
”Il problema è che nemmeno questa volgarizzazione regge alla prova dei fatti. L’idea che i livelli degli spread dipendano semplicemente dai livelli del deficit e del debito pubblico non trova conferme nella ricerca economica. […] L’economista tedesco Daniel Gros, ad esempio, ha notato che durante i tre anni successivi alla crisi mondiale, gli spread dei paesi dell’eurozona risultavano fortemente correlati alle bilance commerciali verso l’estero: maggiore era il deficit estero di un paese, maggiore la differenza tra i tassi nazionali e quelli tedeschi. Anche una ricerca del Fondo monetario internazionale ha confermato l’importanza del deficit verso l’estero per la determinazione degli spread. Inoltre, è possibile mostrare che fin dalla nascita dell’euro, e in modo ancor più accentuato a partire dalla crisi del 2008, gli spread dei paesi aderenti alla zona euro hanno presentato correlazioni non tanto con il deficit e il debito pubblico, quanto piuttosto con il deficit e il debito verso l’estero, sia pubblico che privato. In altri termini, non è l’eccesso di spesa pubblica sulle entrate fiscali a preoccupare tanto, quanto piuttosto l’eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni. Un eccesso, come abbiamo visto, che si concentra nei paesi periferici dell’Unione e che rappresenta l’immagine speculare del surplus di esportazioni tedesco.”
“Sussiste dunque un pesante squilibrio interno al continente europeo, evidenziato dall’accumulo di debiti verso l’estero da parte di alcuni paesi, a fronte di un accumulo di crediti verso l’estero da parte di altri.”
L’austerità, riducendo i redditi e per questa via le importazioni, e aumentando l’export con il contenimento dei costi del lavoro, rimetterebbe i conti in ordine.
“L’idea che va per la maggiore, infatti, è che solo i paesi debitori verso l’estero dovranno farsi carico del riequilibrio nei commerci. Tali paesi dovranno cioè realizzare opportune politiche di austerity sul versante della spesa pubblica e dei salari, e di ulteriore liberalizzazione dei mercati. Le politiche di abbattimento della spesa consentiranno di ridurre le importazioni. Le politiche di liberalizzazione dei mercati, in particolare del mercato del lavoro, dovrebbero permettere di ridurre i costi di produzione e i prezzi, accrescere la competitività e aumentare le esportazioni. Infine, le politiche di compressione dei salari opereranno su entrambi i fronti, dell’import attraverso la riduzione della domanda e dell’export attraverso l’abbattimento dei costi. Per queste vie, il deficit verso l’estero dovrebbe ridursi fino a sparire, e la tentazione dei paesi debitori di sganciarsi dall’euro dovrebbe rientrare”.
L’idea che il rilancio dell’economia sia da costruire sulla riduzione dei salari e delle condizioni di lavoro fa parte della nostra quotidianità. Eppure:
“non è possibile stabilire alcuna relazione statistica tra maggiore flessibilità del lavoro e riduzione della disoccupazione. La precarietà, dunque, non aumenta l’occupazione, ma può essere funzionale al tentativo di rimettere in equilibrio l’Unione attraverso l’austerity e la compressione salariale a carico dei paesi debitori verso l’estero.”
Si potrebbe almeno usare l’austerità come strumento per ridurre gli sprechi e la corruzione, vien da pensare. Dopo il grasso che cola la dieta che rimette a posto.
“Vi è ad esempio l’illusione che una politica di restrizione fiscale possa indurre i cambiamenti strutturali indispensabili per rendere collettivamente fruibili i benefici del progresso tecnico, e possa addirittura contribuire al trapasso verso una società più rispettosa dell’ambiente, magari persino fondata sulla «decrescita». E vi è pure l’idea naïve secondo cui l’arma dell’austerità potrebbe essere finalmente rivolta non verso i lavoratori, ma contro i dissipatori, i corrotti, i membri della «casta». La realtà, tuttavia, è un’altra.”
Ci sono troppe contraddizioni nella logica dell’austerity. Quello di cui si parla tanto, il rilancio della produttività, non può avvenire in un paese se tutti attuano la stessa politica.
“Infatti, poiché lo schiacciamento dei salari si verifica in tutti i paesi, allora le nazioni indebitate non possono mai, attraverso di esso, recuperare competitività rispetto alle nazioni creditrici. Addirittura, nel caso dell’eurozona, la massima deflazione relativa dei salari è avvenuta, paradossalmente, proprio in Germania, vale a dire nel paese già caratterizzato dal più ingente surplus commerciale verso l’estero.”
Siamo un gigante dalle gambe d’argilla.
“L’Unione è stata edificata su basi competitive insostenibili. Insistere lungo la via della concorrenza tra paesi, tra capitali e in ultima analisi tra lavoratori, accresce i dubbi degli operatori finanziari sulla tenuta della zona euro, aizza ulteriormente la speculazione e conduce l’Europa nel precipizio di una modalità della deflazione da debiti di particolare virulenza: la deflazione competitiva dei salari.”
Quel che vale per l’Europa, si può dire lo stiano facendo tutti nel mondo globalizzato, non senza conseguenze. E allora?
“I produttori ripongono qualche speranza illusoria su iniziative che, intraprese da un singolo, lo avvantaggerebbero, ma che non giovano a nessuno nel momento in cui diventano condotta generale […]; se un determinato produttore, o un determinato paese, taglia i salari, si assicurerà così una quota maggiore del commercio internazionale fino al momento in cui gli altri produttori o gli altri paesi non facciano altrettanto; ma se tutti tagliano i salari, il potere d’acquisto complessivo della comunità si riduce tanto quanto si sono ridotti i costi.” (J. M. Keynes)
Che fine faremo, cosa diventeremo dopo gli antichi fasti? Provincia remota dell’impero, dove neanche Cristo è mai arrivato?
“E’ diffusa l’opinione secondo cui i tedeschi alla fin fine non permetteranno che la zona euro esploda. Questo convincimento verte sul fatto che la dissoluzione dell’eurozona ridurrebbe il valore dei crediti verso l’estero posseduti dalle banche tedesche e deprimerebbe anche la competitività delle imprese tedesche. […] Tuttavia, non bisognerebbe dimenticare che la dissoluzione dell’Unione monetaria darebbe anche qualche beneficio alla Germania e agli altri paesi creditori verso l’estero. Un’eventuale svalutazione da parte dei paesi periferici ridurrebbe infatti in termini ancor più drastici il valore delle loro attività: banche, imprese, patrimonio pubblico, tutto costerebbe meno, in termini di valuta estera. L’uscita di questi paesi dall’eurozona darebbe quindi ai capitali stranieri, in particolare tedeschi, ulteriori occasioni di effettuare «shopping a buon mercato» nell’Europa del Sud.”
Per questo, quando ascolto i racconti di A., quando mi spronano a visitare Berlino con tutti quei giovani, dove si sta bene e la vita è tranquilla, mi risale quello scetticismo profondo dei contadini di un tempo, che annuivano ma in fondo non credevano al parlare forbito e alle mani non sporche di terra.
A.V.